giovedì 17 luglio 2014

E' tutto oro quel che luccica

Cristoforo Colombo è appena sbarcato nel nuovo Mondo di cui ignora completamente l'esistenza. Alcuni indigeni gli si fanno incontro sulla spiaggia. Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ricostruisce la scena così: 
"Luis de Torres traduce in ebraico le domande di Cristoforo Colombo:
-Conoscete voi il Regno del Gran Kahn? Da dove viene l'oro che portate appeso al naso e alle orecchie?
Gli uomini nudi lo guardano a bocca aperta, e l'interprete tenta miglior sorte con l'idioma caldeo, di cui conosce qualcosa:
-Oro? Templi? Palazzi? Re dei re? Oro?
E poi prova con l'arabo, quel poco che sa:
-Giappone? Cina? Oro?
L'interprete si scusa con Colombo nella lingua di castiglia. Colombo impreca in genovese e scaraventa al suolo le lettere credenziali, scritte in latino e dirette al Gran Kahn".
(Eduardo Galeano, Memoria del Fuoco - Le Origini)

Anche noi siamo appena sbarcati nel Nuovo Mondo, e pure a noi interessa l'oro. Così, dedicheremo quest'oggi a esplorare una delle più grandi collezioni di reperti di oreficeria precolombiana  del mondo: il Museo dell'Oro di Bogotà.
Per arrivarci dal nostro albergo, situato nella commerciale ed elegante "zona rosa" della capitale, prendiamo gli autobus della rete metropolitana "TransMilenio".


I lunghi autobus diesel scorrono all'interno di piste riservate. Le fermate si trovano lungo tunnel semichiusi, cui si accede da barriere di tornelli. "TransMilenio" è stata progettata nel 2000 e collega una vasta porzione di Bogotà grazie a 14 linee denominate alfabeticamente: dalla A alla J. Partiamo dalla fermata "Héroes" e con le linee B e J arriveremo in mezz'oretta al quartiere storico della Candelaria: proprio dove si trova l'oro che noi, come avidi conquistadores, siamo ansiosi di vedere. 


Il quartiere della Candelaria si rivela, appena scesi dal bus, un impasto di storia e modernità. Percorrendo a piedi l'Avenida Jiménez, la chiesa più antica di Bogotà,dedicata a San Francisco, ci appare in tutta la sua bellezza ma non subito:  la facciata elegante fatica a farsi notare, schiacciata com'è dall'adiacente palazzo della Gobernaciòn de Cundinamarca.



Un cielo plumbeo e tetro sovrasta il massiccio palazzo del Banco de la Republica, di cui fotografiamo i bassorilievi, opera di Vico Consorti. Furono modellati nel 1957 nel suo studio di Roma e successivamente realizzati in travertino dal marmista Ettore Mariani, a Pietrasanta.






All'altro lato del crocevia, l'altrettanto massiccio palazzo che ospita la sede del quotidiano di Bogotà, El Tiempo.
Ancora qualche passo,  ed eccoci davanti all' edificio che ospita più di trentamila oggetti d'oro e molti altri reperti, testimonianze  della cultura delle genti che popolavano le regioni di Calima, Muisca, Narino, Quimbayà, Sinù, Tairona, San Agustin, Tierradentro e Tolima. Il Museo, progettato dall'architetto colombiano Samper Germain Gnecco e costruito nel 1968, ha vinto due anni dopo il premio nazionale per l'architettura. Assomiglia ad una grossa scatola bianca che galleggia a mezz'aria.
Appena entrati leggiamo con sorpresa che l' ingresso è gratuito per le persone "over 60", senza distinzione fra stranieri e colombiani. Inoltre la domenica è gratis per tutti. Dovremmo prendere esempio dalla Colombia! 
Partiamo dunque, alla scoperta dell'oro che tanto bramavano gli europei una volta penetrati nel continente appena scoperto.
Un breve filmato, in una sala buia, ci prepara storicamente alle meraviglie che stiamo per vedere.








Ed ecco svelarsi ai nostri occhi la prima delle cinque sale del Museo, dove vengono spiegate le tecniche di lavorazione dei minerali, la metallurgia antica.






Veniamo così a sapere che in epoca preispanica, nell'area corrispondente all'attuale Colombia si era diffusa una raffinata tecnica: il metodo della "cera perdida". Gli orafi creavano gioielli e altri manufatti modellandoli prima in cera, prodotta da minuscole api prive di pungiglione, chiamate "apine angelo". Di questa specie sono stati trovati esemplari soprattutto nelle foreste pluviali, a 3400 metri di quota.

Un lungo pannello murale aiuta i visitatori a localizzare le popolazioni antiche della Colombia che sfruttavano l'oro e gli altri metalli preziosi a fini politici e religiosi.



Ma dov'è l'oro? Quello che resta dopo lo scempio e le razzie dei conquistadores? Quello che si è salvato dalla fusione in lingotti? Lingotti caricati sui galeoni e trasportati nel Vecchio Mondo per rimpinguare le casse del Regno di Spagna. E di lì presto ripartire, per pagare gli interessi ai banchieri di  mezz'Europa, eterni creditori della corona spagnola?

 Perchè ai rozzi e pratici conquistadores interessava solo il prezioso metallo, naturalmente. Mentre la raffinata fattura degli oggetti non era tenuta in alcun conto. 








Invece, scrive ancora Galeano, "prima di essere convertito in bottino e fuso in lingotti, quest'oro fu un serpente su punto di mordere, una tigre pronta a saltare, un'aquila che spicca il volo o un pugnale che serpeggia e scorre come un fiume nell'aria".
O magari uno stupefacente, aerodinamico pesce volante.







Non ce le dimentichiamo, le parole di Galeano, mentre davanti a noi si apre uno spettacolo da lasciare senza fiato: teche e teche illuminate come raffinati acquari in cui oggetti d'oro dalle forme elegantissime e dalla cesellatura perfetta paiono galleggiare.


































La cosmologia precolombiana spiegava l'origine, il divenire e la struttura dell'Universo assegnando un luogo e un significato a tutti gli esseri viventi e mettendoli in relazione in modo preciso.

















 





Il Cosmo era immaginato   come un insieme di vari livelli, veri e propri "mondi" sovrapposti e interdipendenti. A ciascuno si associavano speciali colori, odori, animali, piante e spiriti. 





L'Universo si manifestava quindi in una dimensione visibile ma anche in un'altra, spirituale, potente e occulta, nascosta alla maggioranza della gente.  Il tramite, l'intermediario fra la dimensione ultraterrena e il mondo reale era il "Cacique".






Sorta di capi tribù, sciamani, uomini di medicina, stregoni, i Cacique dirigevano la vita economica del loro popolo e sovrintendevano alle cerimonie religiose. Con posture corporali e gesti particolari, sancivano il loro ruolo sacro. 





Indossavano sontuosi oggetti d'oro, diademi, anelli alle narici.  Era il segno del loro collegamento con il Sole, di cui l'aureo metallo è il simbolo. Addobbi di piume coloratissime aggiungevano suggestione, ricordando la brillantezza che il Sole dona ai colori.
Anche da morto, il Cacique continuava ad avere privilegi particolari: veniva sepolto con addobbi funebri d'oro, e la sua tomba era una collinetta di terra chiamata "Tola".

"Il Cacique chiede che il conquistatore gli dica perchè così pochi uomini vogliono tanto oro. Saranno sufficienti i loro corpi per tanti ornamenti?".
Così racconta Galeano, descrivendo la conversazione fra il Cacique Nicaragua e Gil Gonzales de Avila, nel 1523.
Non c'è proprio modo di intendersi, fra gli indigeni e i conquistatori venuti dall'altra parte dell'oceano.  Lo stupore incredulo dei nativi si scontrerà con la cupidigia europea, intessendo pagine di storia di cui l'America Latina ancora oggi paga le conseguenze.





In un'area centrale, spiccano in cubi di cristallo i pezzi più pregiati.




E, particolarmente ammmirato e fotografato dai visitatori, il "Poporo Quimbaya". E' il simbolo e il cuore del Museo: fu acquistato dal Banco de la Republica nel 1939 per dare inizio alla collezione. 
I "poporo" erano recipienti nei quali si conservava la calce in polvere, masticata dagli abitanti degli altipiani andini insieme alle foglie secche della coca, per potenziarne gli effetti stimolanti. 










Abbandoniamo l'oro precolombiano che è già pomeriggio, dopo aver pranzato nell'ottimo ristorante del Museo. Lì, abbiamo appena assaggiato il nostro primo piatto tipico colombiano: il "sancocho", sorta di zuppa di carne, yucca, mais e patate servito con riso e avocado fresco. Una vera delizia. Gabriel Garcia Marquez, nelle sue memorie racconta di quando Lorenzo il Magnifico, il cieco pappagallo centenario dei nonni, era cascato nella pentola d'acqua (per fortuna ancora tiepida) messa sul fuoco per cucinare...indovinate un po'? Proprio il sancocho!