lunedì 29 luglio 2013

Arequipa, ritorno al passato

Oggi, giornata di visite nel passato. Abbiamo appena pianificato il pomeriggio:  aggregandoci a un tour dei dintorni di Arequipa,  avremo  la possibilità di fare un saltino nel XVII secolo  visitando la splendida dimora di Don Manuel Garcì de Carbayal,  fondatore della Arequipa coloniale spagnola.  Ma prima, in questa seconda mattinata nella “Ciudad Blanca”, andremo a trovare una persona molto, molto speciale.  Si chiama Juanita, ha all'incirca 13 anni e riposa in una teca-computer  in grado di continuare a conservare  il suo corpo così come per 500 anni l'ha custodito il nevaio del vulcano Ampato. 



Dalla data del suo ritrovamento, era l'8 settembre 1995, abita qui ad Arequipa, nel Museo Santuario Andino, affidata alle attente cure degli archeologi dell'Università Cattolica di Santa Maria. 


E la si può andare a trovare solo da maggio a dicembre. Ma cosa le è successo? E cosa ci faceva a quelle altezze e in quei luoghi così inospitali una giovane e bella ragazzina?




Per capirlo, dobbiamo “sintonizzarci” sulla cultura, la religione e soprattutto i timori del popolo Inca, che motivava  i terremoti e le  eruzioni  devastanti  attribuendoli all' ira degli Apu, antichi dei protettori e signori di vallate, monti e vulcani. Juanita, il cui nome vero non sappiamo ma che deve il suo attuale all'antropologo Johan Reinhard che la trovò fra i ghiacci, era una di quei bambini di stirpe nobile che fin dalla primissima infanzia venivano scelti per essere educati  nelle “Seqsiy Wasi”, o “Case degli eletti”, luoghi riservati a bambini perfetti e di nobile lignaggio.  Vi entravano da lattanti e venivano cresciuti con estrema cura per la loro alimentazione, vestiario, educazione. Crescevano con la consapevolezza che, se fosse stato necessario un intermediario fra l'Inca e il dio creatore Viracocha, proprio qualcuno di loro lo sarebbe diventato attraverso una complicata cerimonia chiamata “Capaccocha”, che durava molti giorni e prevedeva una lunghissima processione fino a Cusco per incontrare l' Inca. Poi un'altra lunghissima salita al monte scelto per il sacrificio, ed infine l'uccisione dei fanciulli, che ricevevano un energico e preciso colpo in testa dopo che erano stati indeboliti con lunghi digiuni e addormentati con una bevanda. Juanita subì questa sorte o meglio, così era stata abituata a pensare fin da piccola, ebbe l'onore estremo di entrare in contatto con le divinità attraverso il sacrificio della propria vita, per implorarare l' Apu del Monte Ampato e il dio creatore Viracocha di smettere di squassare il territorio con  spaventose eruzioni vulcaniche. La guida che ci accompagna nella visita del museo ci racconta tutto questo con molta partecipazione e un simpatico italiano ricco di costruzioni sintattiche spagnole. Con lui percorriamo le sale ovattate e scure, costellate ai lati da teche contenenti oggetti e tessuti ritrovati vicino alla mummia di Juanita. Poi nell'ultima sala, ecco lei. Accucciata nella penombra della sua tecnologica tomba trasparente. Preservata dalla luce e dal calore. 



La contempliamo per pochi intensi momenti attraverso il vetro ricamato di minuscoli cristalli di ghiaccio. Non è permesso stare di più, ma bastano per salutare silenziosamente questo piccolo essere umano fragile che sacrificò la vita per il bene della sua gente e per i suoi contemporanei rappresentò un tramite del mondo terreno con quello divino. 


Usciti dal Museo Santuario Andino, la luce del sole ci colpisce come sempre, qui in Perù. Ma forse dopo questa visita condotta nella penombra, in modo ancor più violento del solito. Si sta facendo tardi, l'appuntamento per il tour è vicino. In fretta percorriamo le ordinate vie di questa città dalla pianta ortogonale e saliamo sul bus dell' agenzia che ci porterà a spasso nei dintorni per il resto del nostro pomeriggio.



Una graziosa signorina con elegante cappellino di paglia (tipico arequipeno) sarà la nostra guida.






Prima fermata, il “mirador” panoramico della adiacente cittadina di Yanahuara, dalle cui arcate istoriate si “mira” davvero uno spettacolo magnifico di Arequipa circondata dai suoi vulcani.









A lato del punto panoramico, la piazza è impreziosita della chiesa di san Giovanni Battista: la sua facciata scolpita nella pietra vulcanica “sillar” è un capolavoro di raffinatezza.







Anche l'antico crocifisso che troneggia all'esterno del portone d'ingresso, è suggestivo e merita di essere fotografato.



































Risaliamo sul bus, diretti a un grande negozio di abbigliamento e tessuti pregiati, con annesso piccolo zoo di camelidi andini. La nostra vista non desta molto entusiasmo nei placidi animali. 







Continuano con indifferenza a brucare la loro erba, incuranti dei turisti armati di telefonini e macchine fotografiche. Solo una classe di ragazzini vocianti riesce per un momento a smuovere l'imperturbabilità di un guanaco, che sputa contro i marmocchietti suscitandone risate e commenti. 









Terza tappa, ci troviamo ormai a una quindicina di chilometri di distanza dal centro della “città bianca”, ecco aprirsi un parcheggio alberato e un elegante ingresso pedonale con piccolo chiosco-biglietteria. Siamo arrivati finalmente alla dimora del fondatore della Arequipa coloniale: Don Manuel Garcì de Carbayal.  La bella magione sorge in località Huasacache, su una piccola collina da cui si gode la vista della sottostante Valle di Socobaya. La “Mansion del Fundador”, esempio elegantissimo di stile coloniale peruviano del XVII secolo, stava andando in malora. 



Ma nel 1981 un gruppo di appassionati di quel periodo storico  la restaurarono riportandola agli antichi splendori. Ora la casa è un vero e proprio museo ed è utilizzata come “location” di prestigio per cerimonie, soprattutto matrimoni. Possiede infatti una piccola e suggestiva cappella e saloni adatti a ricevimenti e  banchetti. 






L'arredamento, ricostruito in ogni minimo dettaglio, ci permette un tuffo nello sfarzo della vita quotidiana dei nobili di origine spagnola. Li immaginiamo aggirarsi fra mobili di chiara fattura iberica. O accostarsi ai finestroni  elegantemente incorniciati, come veri e propri quadri, da preziosi listelli di legno intagliato. 
Perchè ogni particolare del meraviglioso paesaggio circostante si potesse godere appieno, e con tutte le  luci e i colori offerti dai vari periodi dell'anno. 





Tutto questo, mentre la servitù si dava da fare, come sempre accade a tutte le latitudini e in tutte le epoche, in cucina. 






La sera è ormai prossima e sfumature di oro e arancio si posano sui muri della “Mansion del Fundador”. 


E' ora di rientrare ad Arequipa. Saliamo sul bus che, dopo un' ultima tappa per visitare un vecchio mulino, ci riporta fra le bianche mura della Plaza de Armas. Sferzati da un'arietta frizzante, e con l'immagine dei pentoloni della cucina del “Fundador” ancora in mente, cerchiamo un ristorante per cenare.  Parecchi sono “completi”, qualcuno troppo “da turisti”...finalmente ce ne piace uno. Si chiama “Lo Zingaro”, chissà perchè, proprio così, all'italiana.



 


Entriamo e ordiniamo carne di alpaca. Beh, dobbiamo proprio scriverlo, per noi quella è stata la miglior carne fin ora mai assaggiata. Una delizia che sicuramente avrebbe suscitato  commenti entusiasti, alla tavola di Don Manuel Garcì de Carbayal!