mercoledì 20 agosto 2014

Colombia, Sierra de Santa Marta, Minca; Piove! Senti come piove! Senti come viene giù!

Un'altra luminosa mattinata è appena iniziata a Santa Marta. Colazione a base di frullati, pancake e frutta tropicale nel grazioso hotel Aluna, enclave Irish in piena Colombia. 

Alle 9 lo smartphone registra già 30 gradi di temperatura esterna percepiti come 35, tasso di umidità 71 per cento. E così,  ci viene l'idea di fare una capatina nelle verdissime e boscose pendici iniziali della Sierra Nevada di Santa Marta. 



















La Sierra ha una grande estensione,17 mila chilometri quadrati, vanta due cime di ben 5775 metri di quota ed è il massiccio più vicino al mare che ci sia al mondo: solo 42 chilometri in linea d'aria  dalle tiepide distese oceaniche del Mar dei Caraibi. Nel 1980 questo piccolo eco-paradiso è stato dichiarato "Riserva per l'uomo e per la biosfera" dall'UNESCO. Al suo interno si va dall'ambiente tipico della foresta pluviale fino al clima rigido delle sue cime perennemente innevate. Anche l'archeologia e l'etnologia hanno qui pane per i loro denti: il sito archeologico della "città perduta", Tayrona, sede dell'omonima civiltà è proprio in un'area della Sierra. E tutta la Sierra è ancora abitata da quattro etnie indigene: i Wiwa (o Arzarios), gli Ika (o Arhuaco), i Kankuamo e i Kaggaba (o Kogi).
Noi vogliamo addentrarci nel bosco che fa da ingresso alla Sierra, a pochi chilometri da Santa Marta, alla ricerca di un po' di frescura e di vegetazione per noi esotica. Attraverso una strada tortuosa ma carrozzabile sappiamo che si può arrivare in una mezz'oretta di auto o bus  all'abitato di Minca, zona famosa per l'eccellente qualità del caffè che vi si coltiva e per le acque cristalline del torrente Minca, appunto, da cui prende il nome il piccolo villaggio. Partiamo dall'hotel in compagnia di due ragazzi, un newyorchese e un australiano, con cui abbiamo già da qualche giorno stretto amicizia e con cui condivideremo il viaggio fino a Minca. I due si sono informati e sanno che al "mercado"  parte il "collettivo" (piccolo bus pubblico) per Minca. Attraversiamo la fitta galleria di bancarelle fino ad un angolo di strada. Il collettivo dovrebbe passare di lì.

In realtà, il bus non arriva. Forse addirittura non arriverà mai, è ormai quasi un'ora che l'aspettiamo.  Alcuni si avvicinano e insistono a dire che il bus non c'è. Altri ci propongono passaggi a pagamento su auto che cadono a pezzi solo a guardarle. Un breve consulto e decidiamo di salire su quella meno peggio: un fuoristrada, una "camioneta"  vecchiotta e infangata condotta da un tipo che pare conosciuto alla gente del posto. Con noi quattro si sistema nell'abitacolo, infatti, una signora locale dall'aria simpatica che lavora a Minca e fa regolarmente la pendolare fra quel villaggio e Santa Marta. Tre passeggeri pigiati sul sedile posteriore, due passeggere e l'autista sui sedili anteriori. Si parteeee!


La signora locale inizia subito a fare la morale all'autista sul fatto che non è legale portare tre passeggeri davanti, e che chi è consapevole dell'esistenza di una norma deve rispettarla. Intanto (e siamo appena partiti!)il conducente è costretto a inchiodare per evitare di investire un ragazzo caduto all'improvviso dal predellino posteriore del furgone che ci precede, e a cui l'incauto viaggiava aggrappato. Noi davanti, per la brusca frenata rischiamo il cozzo contro il parabrezza.

La signora riprende subito la rampogna con ancor più veemenza, tirando in ballo la questione delle cinture di sicurezza che, è ovvio, in tre passeggeri stipati in un sedile da due non si possono allacciare. Intanto la camioneta  abbandona il traffico cittadino (disordinato, allegro,  folcloristico come solo in America latina sa essere). Lasciata Santa Marta iniziamo a salire verso Minca. 
La strada è dissestata e piena di buche. Addirittura, a volte sterrata. A un certo punto alcuni operai che la stanno rattoppando fanno finta di creare un posto di blocco. Il nostro autista tira giù il finestrino, scherza con loro, lascia una mancia in cambio del via libera.
Poi ridendo ci spiega che si stanno quotando per riparare la strada poiché l'amministrazione pubblica non provvede, e a loro ovviamente la strada serve e in buono stato. La signora allora riparte all'attacco. Stavolta se la prende con i suoi concittadini, tra cui il malcapitato autista, rei di premiare con il proprio voto le persone sbagliate.  "La colpa è vostra" conclude "perché parlate tanto e poi date il vostro voto in cambio di una bottiglia di Rum!". 
Dopo quest'ultima secca accusa, incassato il colpo l'autista si trova ora alle prese con curve sempre più strette e ripide. Gli ammortizzatori sono scarichi e ogni buca si ripercuote nelle budella dei divertiti e per niente preoccupati passeggeri. Latinoamerica è anche questo, e ci piace da matti.
Intorno, una vegetazione folta che ricorda un po' le nostre colline piemontesi. L'aria si fa fresca, siamo davvero all'ingresso della Sierra Nevada di Santa Marta!
  

Arriviamo finalmente nella piazzetta di Minca, dove la strada si apre in uno slargo. La nostra simpatica signora colombiana nel frattempo ha estratto dalla borsetta e indossato un cappello tailandese pieghevole che le dona un'aria molto orientale. Ci saluta con simpatia, augurandoci di "disfrutar" la giornata e la bella arietta fresca che da lassù si gode. 






Il fuoristrada se ne torna a valle. Rimaniamo tutti e quattro nella piazzetta. I due ragazzi nostri compagni di gita decidono di avviarsi a piedi verso le cascate del rio Minca. Noi invece vorremmo visitare la Finca Vitoria, una piantagione di caffè molto rinomata. La finca però è lontana da raggiungere a piedi, una ventina di minuti invece in mototaxi. Chiediamo ad alcuni passanti se ci sono taxi o mototaxi in paese. Non ci convincono per niente i ragazzotti che si avvicinano subito per offrirci un costoso passaggio con le loro motociclette:  il prezzo chiesto cambia di continuo, nel giro di cinque minuti cambia tre volte aumentando sempre più. Inoltre, arriva una pattuglia di poliziotti motociclisti che si ferma al piccolo bar del piazzale. I ragazzi con fare circospetto e complottoso ci chiedono di aspettare che la Polizia se ne vada, dandoci così la certezza  che la loro attività di mototassisti è fai-da-te e non autorizzata.  Decidiamo di rinunciare alla visita della piantagione di caffè, con la scusa che troviamo esosa l'ultima versione della cifra richiesta per portarci là. E il buon caffè ce lo prendiamo seduti al traballante tavolinetto di plastica bianca del baretto-emporio principale di questo angolo di mondo, sperduti in un oceano di vegetazione verde brillante. 




Sapevamo che sulla Sierra abitano vari gruppi etnici che hanno conservato le loro tradizioni e i loro ritmi di vita. Ingenuamente, non ci aspettavamo perciò di vederli scendere in paese, in sintonia perfetta con le diavolerie della modernità, per acquistare la ricarica del telefono cellulare! 











Ci avviamo verso il fondo del paese, da dove è arrivato lo ieratico indio, e dove la strada diventa sentiero e prosegue verso le cascate. Il paese è piccolo e riserva sorprese, come un buffo mural con gufo verde o una chiesetta linda dall'aspetto quasi britannico.









Il sentiero sale un po', poi diventa pianeggiante. Si costeggia il torrente, sembrerebbe una passeggiata nei nostri boschi, non fosse per le imponenti gallerie di bambù sotto cui passiamo ogni tanto. Anche i richiami degli uccelli sono diversi da quelli che siamo abituati a sentire in Europa. Fruscii, gorgheggi, e a terra baccelli e semi per noi strani, foglie secche dalle forme poco familiari, e colonne di formiche laboriose rendono interessante la camminata. 
Sopra di noi il cielo è diventato grigio e c'è una cappa di umidità a sostituire la brezza fresca che ci aveva accolti all'inizio della passeggiata.






























Continuiamo a seguire il sentiero. Ce la siamo presa comoda ma comunque sono quasi due ore che camminiamo. Le cascate però sembrano non arrivare mai. Passiamo accanto a una specie di campeggio rudimentale e decidiamo di fare una sosta perché ci incuriosisce, e poi abbiamo sete e lì promettono birra fresca.

Scopriamo che si tratta di una piccola struttura turistica gestita da un inglese che tiene corsi di "sopravvivenza nella jungla". Meglio di così non potevamo capitare! Il ragazzo sta segando canne di bambù per costruire terrazzamenti che possano arginare il terreno che tende a franare. 


Ci spiega la sua attività mentre si prende una pausa,bottiglietta di birra Aguila alla mano, insieme a noi.
Nel suo giardino, sotto a un gazebo degno di Robinson Crusoe ci sono archi e frecce di foggia primitiva ed un originalissimo bersaglio fatto utilizzando un vecchio pneumatico.



Tutto attorno, piante tropicali dalle infiorescenze geometriche e affascinanti offrono acqua e polline a piccoli insetti.



Paghiamo le nostre birre, salutiamo il simpatico Robinson e ben rinfrescati facciamo ancora qualche curva del sentiero, costeggiando il ruscello, sempre in attesa di arrivare finalmente alle cascate. Il ragazzo ci ha assicurato che sono a mezz'ora da lì.






Il sentiero si fa strada, lastricata, per un piccolo tratto. Attraversiamo persino un guado. per non bagnarci calze e scarpe lo attraversiamo a piedi nudi: non immaginiamo che queste precauzioni fra pochi minuti si riveleranno assolutamente inutili.





Delle cascate tuttavia neanche l'ombra, o meglio neanche uno spruzzo. Una cortina di nubi basse e plumbee, intanto,  ci ricorda che al pomeriggio a quelle latitudini spesso piove. E la stanchezza comincia a farsi sentire nei polpacci.  
Ad un tratto un tuono fende minacciosamente l'aria. Di colpo l'aria si fa fredda, e il cielo color antracite. Capiamo che bisogna tornare a Minca alla svelta.
Dei nostri iniziali compagni d'avventura, il newyorchese e l'australiano, neanche l'ombra. E pensare che avevamo pianificato di ritrovarci lungo il percorso alle cascate: chissà dove saranno, pensiamo, se almeno loro le hanno trovate.
Intanto camminiamo di buon passo sperando così di evitare la pioggia. Il sentiero sale e scende dolcemente, ma ora siamo stanchi e tutto sembra più faticoso.










Inizia a cadere una leggera cortina di gocce minuscole praticamente nebulizzate.
Ben presto però, il lieve velo umido si trasforma in uno sferzante acquazzone tropicale. Una doccia violenta e fredda che penetra dappertutto e non smette più. Avvolgiamo come possiamo la borsa nella giacca K-Way per proteggerne almeno un po' il contenuto. La strada si trasforma presto in un torrente marrone rossiccio che penetra nelle scarpe da ginnastica riempiendole di acqua mista a terra. Altro che togliere scarpe e calze come avevamo fatto un'ora fa guadando il ruscello. Continuiamo la discesa cercando di rimanere in piedi malgrado il fango viscido. L'acqua si rovescia a secchiate dal cielo, scorre sulle larghe foglie tropicali rendendole lucide e profumate. Poi, cola con fragore sulle nostre teste ed è talmente fitta da farci bruciare gli occhi, che fatichiamo a tenere aperti quasi stessimo nuotando. Le lenti degli occhiali sono completamente opacizzate dalle gocce e dobbiamo usare le dita come tergicristalli per poterci vedere e continuare la discesa. Ogni tanto, un tuono fragoroso si aggiunge allo scrosciare della pioggia. Così, per più di un'ora. Malgrado il timore di scivolare e la preoccupazione costituita dal torrente-strada sempre più violento, la sensazione che ci pervade è di assoluta libertà. Viene alla mente qualche pagina di Lawrence, o di D'Annunzio. Mirabili descrizioni di connubi mistici fra umani e natura selvaggia. L'istinto qui ha la meglio sulla ragione, la sensazione è di quelle che non si possono dimenticare e che almeno una volta nella vita bisognerebbe poter sperimentare. 
Arriviamo finalmente alla piazzetta di Minca, fradici e infreddoliti. Ci infiliamo sotto al casalingo "dehor" che al mattino già ci aveva accolti per un buon caffè. Ci sistemiamo in un angolino, grondiamo acqua da tutte le parti. Ci togliamo le tshirt e le strizziamo come faremmo con il bucato. Poi ce le rimettiamo addosso. La gente, accomodata nelle sedie di plastica bianca, non pare farci caso. Si stanno invece godendo lo spettacolo della piazzetta sotto il diluvio, le strade trasformate in corsi d'acqua.Un paio di ragazze, per la via, camminano incuranti del finimondo liquido che continua a venir giù e della strada allagata. E anche prima, durante la discesa, avevamo incontrato un uomo: trasportava una lunga e grossa canna di bambù, fendendo la cortina d'acqua con passo calmo, perfettamente a proprio agio. Non abbiamo più nulla di asciutto, a parte i passaporti provvidenzialmente protetti dalla KWay, quando finalmente smette di piovere. Intanto sono arrivate da valle alcune auto e anche i nostri due amici sbucano fuori da un altro locale dove si erano rintanati, per loro fortuna appena prima che il cielo colombiano aprisse per noi le sue cateratte. Ci accordiamo per la discesa con l'autista di un fuoristrada. Ci riporterà a Santa Marta per un prezzo più che ragionevole, e intanto porterà in città il suo carico di erbe, pronte per il mercato di domattina. 

I sacchi sono pieni soprattutto di menta. Il profumo talmente intenso, esaltato dalla pioggia appena presa, dà un piacevole stordimento, complice la stanchezza e il rollio dolce della "camioneta" lungo le curve della strada. 






Concludiamo qui il diario di questa avventura tropicale, non senza pubblicare due immagini emblematiche. 


Nella prima, l'ultimo scatto di un cellulare che, a seguito dell'acquazzone, sia pur custodito in tasca ha finito la sua vita di lì a qualche ora per via dell'acqua nella batteria.

Il secondo e ultimo fotogramma, per documentare il lavoro certosino di asciugatura del contenuto della borsa, comprendente documenti, dollari (in parte macchiati irreparabilmente…), quaderno-diario e cianfrusaglie assortite. Ci mancava, direte voi, un ombrello. Ma tanto, in quella situazione, non sarebbe servito :-)