mercoledì 7 agosto 2013

Bolivia: Una visita che vale un Potosì


Quattrocentosessant'anni fa, nel 1553, Potosì era la città a cui Carlo V aveva appena attribuito il titolo di “Villa Imperial” ed uno scudo con l'iscrizione, allusiva al monte argentifero che la sovrasta, “Sono il ricco Potosì, sono il tesoro del mondo, sono il re dei monti e sono l'invidia dei re”. Poi la città si era ancora ingrandita, tanto da diventare, secondo un censimento del 1573, popolosa come Londra e più popolata di Siviglia, Madrid, Roma e Parigi. E in un censimento fatto attorno al 1650 Potosì risultava avere centosessantamila abitanti, cioè dieci volte più di Boston, in tempi in cui New York si chiamava ancora New Amsterdam e non le faceva certo concorrenza. Insomma una metropoli del suo tempo, e la più abitata dell'Impero spagnolo.
E se dopo la conquista spagnola delle terre sudamericane in Spagna si usava dire "vale un Perù" per indicare qualcosa di immenso valore, è significativo come nel "Don Chisciotte" Cervantes sostituisca quell'espressione con "vale un Potosì". Si tratta di un modo di dire ancora in uso oggi,  e costituisce una prova evidente della risonanza  che ebbe in Europa la Potosì coloniale.

Ricaviamo queste notizie da “Le vene aperte dell'America Latina”, dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, la nostra insostituibile “bussola” ogni volta che mettiamo piede in Sudamerica. 








Stamattina andremo a visitare la “Casa Nacional de Moneda”, la storica zecca di Potosì che ieri pomeriggio era chiusa ai turisti perché riservata alle visite degli alti Ufficiali dell'esercito venuti in città per la parata militare. 

Ci incamminiamo così per le viuzze di questa città a suo modo affascinante, godendo di ogni particolare offerto dagli edifici coloniali, ora dimessi e imbevuti di atmosfera da nobiltà un tempo ricchissima e ora miseramente decaduta. Un tipico balconcino coperto spagnolo, un “mirador”, da cui penzola, afflosciata, la patriottica bandiera, un palazzo celeste ornato di fregi avorio, ormai appannato dal tempo e dalla scarsa manutenzione e con la facciata soffocata da una ragnatela di cavi della linea elettrica pubblica che qui, come in tante parti del mondo, chissà perché viaggiano in superficie in barba all'estetica urbana.



E su tutto, ovunque tu vada, incombe la rossiccia sagoma piramidale del Cerro Rico, con la punta acuta che tocca i 5000 metri di quota. 



Questo vero e proprio forziere della Natura, ripieno di metalli d'ogni tipo ma soprattutto imbottito di una quantità mai vista d'argento, era già noto agli Inca che però non lo avevano sfruttato perché - come narra la leggenda - non appena infisse le selci nelle vene argentifere una  voce cavernosa li aveva atterriti e avvisati che quella ricchezza era stata destinata ad altri signori che sarebbero giunti "dall'aldilà".  Gli indios e gli Inca erano scappati terrorizzati e da allora avevano chiamato  quel luogo con un nome profetico, "Potosì", che in lingua quechua pare significhi "tuona, scoppia, esplode". Come se avessero presentito le esplosioni di dinamite che ancora oggi, dalle miniere, ne squassano le viscere ormai pressochè svuotate. 

 Intanto i destinatari di tanta manna metallica non tardarono ad arrivare, nel 1545, quando lo spagnolo Juan de Villaroel intuiti i potenziali tesori del monte prese ufficialmente possesso del territorio. Intorno al Cerro Rico sorse così velocemente un agglomerato urbano ben presto all'altezza di una metropoli europea. 
Di argento nel Cerro Rico ce n'era davvero una quantità impressionante. Galeano riporta una leggenda popolare secondo la quale con l'argento estratto dal Cerro di Potosì si sarebbe potuto costruire un ponte  fra la cima del Cerro e il palazzo del Re, in Spagna, e avanzarne ancora. 


A Potosì la ricchezza e il lusso scorrevano a fiumi. Galeano scrive che “all'inizio del secolo XVII, la città aveva già 36 chiese , 36 case da gioco e 14 scuole di ballo. I saloni, i teatri e le sale per le feste ostentavano tappeti ricchissimi, tende, blasoni e opere di oreficeria; dai balconi delle case pendevano damaschi colorati e fiamme d'oro e d'argento. Le sete e i tessuti venivano da Granada, dalle Fiandre e dalla Calabria; i cappelli da Parigi e da Londra; i diamanti dallo Sri Lanka; le pietre preziose dall'India; le perle da Panamà; le calze da Napoli; i cristalli da Venezia; i tappeti dalla Persia ; i profumi dall'Arabia e le porcellane dalla Cina”. 
E per la festa del Corpus Domini del 1658 alcune strade furono lastricate d'argento.








Sembra una fiaba, raccontata così. Ma facciamo fatica a  immaginare tanta opulenza, mentre calpestiamo un pavimento stradale non certo d'argento,
delimitato da edifici consunti e dall'intonaco scrostato.





Poi, d'improvviso, una chiesa dalla facciate finemente intagliata o un campanile orgoglioso che svetta all'orizzonte di una via, richiamano effettivamente ad un passato splendore.











Il rovescio della medaglia di tanta ricchezza,però, era terribile. Gli spagnoli costrinsero subito la popolazione india a lavorare nel Cierro Rico, che dal 1550 iniziò ad essere chiamato “la bocca dell'Inferno”.

 L'artista ed editore Theodorus de Bry, pur non avendo mai visto le miniere di Potosì aveva colto in pieno tutta l'atrocità di quelle condizioni disumane di lavoro in questa incisione datata 1590.

Gli storici quantificano in circa otto milioni il numero di vite umane stroncate a causa delle condizioni di lavoro sia in miniera che nella successiva fase di estrazione dell'argento, che veniva compiuta con il mercurio, velenoso ancor più dei gas tossici che si sprigionavano nelle viscere del Cerro. E nelle buie e strette gallerie gli indios, strappati ai loro villaggi e alle loro comunità agricole, rimanevano giorni e giorni. Davvero un inferno dal quale la maggior parte non tornava.

Galeano riporta la testimonianza di uno che delle miniere del Cerro Rico se ne intendeva: l'ingegnere minerario (così sarebbe oggi definita la sua qualifica)Luis Capoche, spagnolo finito lì a dirigere l'estrazione dell'argento. Nella sua “Relacion general de la Villa Imperial de Potosì” del 1585 descrive le condizioni di lavoro inumane dei minatori indios, il loro passare dalle temperature glaciali dell'ambiente esterno (a 5000 metri di quota)al calore infernale delle gallerie. “Generalmente li estraggono cadaveri, e altri hanno la testa e le gambe rotte, e nelle fonderie si infortunano ogni giorno” precisa poi. Anche gli schiavi africani furono in un primo tempo impiegati nelle gallerie. Ma la loro alta statura e la corporatura robusta rendevano difficoltoso intrufolarsi nei cunicoli. Pertanto le loro misere vite si consumavano nei lavori agricoli, o nel famigerato ciclo di estrazione dei metalli preziosi che seguiva al lavoro dei minatori.

Ma come e in che forma arrivava il prezioso argento in Europa? 
Con scortatissimi convogli di navi cariche di monete, medaglie e lingotti, che alcune volte all'anno attraversavano l'oceano e sbarcavano a Siviglia il loro prezioso carico. Argento quasi completamente destinato a pagare anticipi e interessi sui debiti che la Corona di Spagna aveva contratto con i banchieri tedeschi, fiamminghi, genovesi ed anche spagnoli stessi. Quindi, come acutamente riassume Galeano nel titolo di un paragrafo, "La Spagna aveva la vacca, ma altri si bevevano il latte".
Ma dove si "lavorava" questo prezioso "latte", prima dell'imbarco sui galeoni spagnoli per la rischiosa traversata transoceanica?
Per scoprirlo stiamo entrando alla Casa de Moneda, l'antica zecca sudamericana scampata ai terremoti e conservata a ricordo di quella ricchezza  così abbondante, pagata un prezzo in vite umane tanto terribile. 


Il grande cortile d'ingresso è quadrangolare, con al centro una fontana zampillante. Un grande mascherone con l'effigie di una specie di Bacco, sorriso a trentadue denti inscritto in un faccione colorato come un un carro del Carnevale di Viareggio, troneggia sulla balaustra della balconata di legno che si affaccia sul cortile. Sulla guida c'è scritto che potrebbe essere effettivamente il dio greco-romano, ma anche ricordare l'indio Diego Huallpa, a cui la tradizione attribuisce la scoperta del Cerro Rico, oppure la caricatura di uno dei direttori della Casa de Moneda. O una burla architettata contro i conquistadores con l'intento di irridere però personaggi del periodo repubblicano. E altre interpretazioni ancora. L'unica cosa certa è che fu realizzata nel 1856 da Don Eugenio Martìn Moulon, intagliatore francese che lavorava alla Casa de Moneda come scultore di punzoni e matrici per monete e medaglie commemorative.






















L'enorme edificio in cui siamo appena entrati risale al 1773 e fu edificato per sostituire una precedente Zecca, visibile ancor oggi nella piazza centrale. La zecca che stiamo visitando era stata pensata allo scopo di aumentare e perfezionare ulteriormente la produzione di monete e medaglie.



Tanto argento, da far affermare che non vi sia museo storico nè numismatico, in tutto il mondo, che non contenga nei suoi reperti il nome di Potosì e della sua Casa Real de Moneda, una delle Zecche più conosciute e la seconda in America dopo quella del Messico.



Nella Casa si possono ancora osservare gli antichi punzoni, azionati con l'energia di muli e schiavi. Immaginiamo  tutta l'immensa fatica di cui questo luogo è stato muto testimone 


 















La visita prosegue in sale contenenti oggetti d'argento finemente cesellati: posate, stoviglie, ma anche crocifissi ed altri oggetti sacri. Viene spontaneo pensare alla contraddizione insita in una figura di Cristo modellata in un materiale costato tanta indicibile sofferenza





Per finire, la sontuosa cappella, alcune sale contenenti dipinti dell'epoca coloniale - ci colpisce in modo particolare la "Madonna del Cerro" - e una sala dedicata alla celebrazione degli eroi dell'indipendenza sudamericana e dei primi Presidenti della Repubblica boliviana.









Usciamo all'aperto, accecati dalla luminosità potente del sole dopo tanta penombra nelle sale del museo. Come non pensare, allora, a cosa dovevano essere le pugnalate di luce ricevute dai poveri occhi di un indio, immerso per  settimane in un buio cunicolo del Cerro Rico del Potosì.



E dobbiamo, infine, ricordare che purtroppo qui si continua ancora a setacciare le viscere del Cerro, riuniti in cooperative, e con mezzi di poco più moderni rispetto alle miserevoli condizioni del periodo coloniale. Le misure di sicurezza sono minime e qui si muore ancora sia per i crolli dei cunicoli che per le malattie dovute alle pessime condizioni in cui questa povera gente lavora là sotto.E' possibile effettuare un percorso dentro alle miniere, accompagnati da ex minatori, e incontrare i minatori al lavoro. Chi l'ha fatto narra di un'esperienza difficile, che mette alla prova il fisico ma soprattutto la psiche.
Noi abbiamo chiacchierato un po' di questo, ieri pomeriggio, con Pedro, uno straordinario ragazzo ex minatore che con altri suoi colleghi ha deciso di fondare la "Big Deal Tours". Questa agenzia non è l'unico tour operator che qui offre la visita al Cerro, ma ne abbiamo letto così tanto e bene da volerla cercare, nel dedalo di viuzze della città.




 L'abbiamo trovata,siamo entrati e ci ha accolto proprio Pedro in persona. Arriva dritto al cuore, con la sua simpatia e la sua sincerità. Ci ha spiegato il percorso ma ci ha avvertito di non poter assicurare con certezza  che si possa incontrare i minatori, l'indomani, in quanto è la festa nazionale e potrebbero decidere di non andare in miniera, almeno per questa occasione. Alla fine, non ce la sentiamo di prenotare il tour, vince la paura della difficoltà fisica e lo stress psicologico che immaginiamo comporterebbe.


Ci resta però, insieme a una simpatica foto con Pedro, il ricordo di una conversazione profonda e toccante, grazie alla quale abbiamo potuto cogliere dalla viva voce di chi nel Cerro ha lavorato per anni, almeno qualche sfaccettatura della realtà di miseria e rischio, eredità pesante di uno sfruttamento europeo durato secoli per estrarre una ricchezza che qui non ha lasciato quasi traccia. 









Ancora Galeano scrive, a proposito di Potosì: "Questa città, condannata alla nostalgia,tormentata dalla miseria e dal freddo, è una ferita ancora aperta del sistema coloniale in America: un'accusa ancora viva. Il mondo dovrebbe iniziare a chiederle scusa".
Ebbene, il post che avete appena finito di leggere vuol essere il nostro modo di chiedere scusa a Potosì:  un contributo a diffondere il racconto  di una pagina di Storia che non è facile trovare, sviluppata come meriterebbe, nella maggior parte dei  libri in uso nelle scuole italiane.