Quando stamattina ci siamo imbarcati su un aereo per raggiungere la città boliviana dal nome dolce, Sucre, non immaginavamo certo che avremmo trascorso il resto della giornata tra giganteschi animali preistorici. Alle 9,30 abbiamo salutato la capitale più alta del mondo, Sua Altezza La Paz, che fuori dall'aeroporto c'erano più o meno 2 gradi sopra lo zero e un sole luminoso.
L'aereo si è alzato in volo dolcemente, mentre noi incrociavamo le dita perché a questa quota (l'aeroporto di La Paz si trova a 4050 metri sul livello del mare) a decollare si fa fatica a causa dell'aria rarefatta, e ci vuole pista lunga ed aereo efficiente.
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Dai finestrini abbiamo fotografato il paesaggio sottostante: terre dalle innumerevoli gamme di ocra, sabbia e verde oliva, una tavolozza che sarebbe piaciuta a Balthus.
All'aerostazione di Sucre un piccolo dinosauro faceva gli onori di casa. Il primo di una grande famiglia che avremmo conosciuto di persona più tardi.
Con un taxi abbiamo raggiunto il centro storico di Sucre fermandoci davanti al “Mi Pueblo Samary”.
L'ingresso nell'albergo è un tuffo nella Belle Epoque: a sinistra, da un attaccapanni di legno in stile viennese sbocciano una decina fra cappelli e scialli appartenuti certamente a distinte signore di cento anni fa, di cui questi muri potrebbero forse raccontarci la storia.
Poco più in là, una cappelliera di cuoio color cognac e due valigie hanno l'aria di star viaggiando anch'esse da almeno un secolo.
Il bancone della reception poi, è sovrastato da un'arcata con volute di stucco bianco e una data: 1876. Su un grosso quadro di ceramica, a lato, c'è una scritta semplice e deliziosa il cui intento è far sentire l'ospite in un luogo intimo, sicuro come a casa propria.
Nel percorso per raggiungere la camera che ci hanno assegnato ci soffermiamo ad ammirare altri angolini d'antan, come una magnifica chaise longue di giunco e paglia viennese su cui sono appoggiati un volume rilegato in pelle ed un paio di occhialini rotondi, alla Cavour. Chissà in quali luoghi starà viaggiando ora, il turista distratto che li ha dimenticati qui un secolo fa.
La stanza si affaccia su di un' ampia balconata comune che delimita un patio. L'edificio, un'antica casa di epoca coloniale, ha davvero la struttura di un piccolo microcosmo a se stante, e guardando giù notiamo che ha persino una piccola chiesa interna e i giardinetti.
Alzando lo sguardo, rimaniamo poi senza fiato ad ammirare i campanili eleganti e la distesa di tetti dalle tegole color cipria e mattone che ricoprono l'area del centro storico.
Questa città, capitale costituzionale della Bolivia, sede della Corte Suprema di Giustizia e soprattutto luogo dove il 6 agosto del 1825 fu firmata la Dichiarazione di Indipendenza, oggi appare da quassù particolarmente suggestiva. In lontananza si vede una corona di colline e ci ricordiamo di aver letto che Sucre è stata costruita su sette colli, come Roma. “Patas” si chiamano in lingua Quechua.
E il nome che a noi continua a suonare così zuccherino, in realtà si riferisce al Generale Antonio Josè de Sucre, eroe della battaglia di Ayacucho, lo scontro che mise praticamente la parola fine, nel 1824, al potere coloniale spagnolo in America Latina.
Ma prima di questi avvenimenti, la città aveva nome Charcas per i ricchi colonizzatori spagnoli che la abitavano nei secoli XVII e XVIII, ed era la sede del più potente Tribunale della colonia spagnola e del principale arcivescovado d'America. Era, scrive Eduardo Galeano, “La città più appariscente e colta dell'America del Sud”. E prosegue raccontando che le signore appartenenti alle ricche e nobili famiglie di origine spagnola davano banchetti e “facevano a gara nel dissipare le favolose rendite prodotte dalle loro miniere di Potosì e, quando le sontuose feste giungevano alla fine, gettavano dai balconi il vasellame d'argento e talvolta anche gli oggetti d'oro perché venissero raccolti dai passanti più fortunati” (E. Galeano, Le vene aperte dell'America Latina)
Era infatti l'epoca della grande ricchezza alimentata con l'argento e le inumane fatiche dei minatori indios e africani del Cerro Rico di Potosì (a qust'altra località ed alla sua incredibile storia dedicheremo presto un post). Quando le vene argentifere del Cerro Rico furono esaurite, il declino economico di Potosì rimbalzò anche qui. Sucre appariva ora troppo lontana dalla ricchezza economica e così il governo boliviano si spostò a La Paz lasciando a Sucre soltanto il Tribunale.
Abbiamo solo una giornata da dedicare a Sucre, perché l'implacabile tabella di marcia ci vuole il 15 Agosto ad Asunciòn, Paraguay, e di chilometri da fare ce ne sono ancora tanti. Scendiamo quindi in strada e ci aggiriamo un po' per la piazza principale ammirando edifici pomposi tra cui spicca il candido Palazzo del Gobierno Autónomo Departamental de Chuquisaca
http://es.wikipedia.org/wiki/Sucre#mediaviewer/Archivo:Indepedence_treaty_of_Bolivia.jpg
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Ci piacerebbe entrare nella “Casa della Libertà”, ma non potendo per questioni di orari visitare l' edificio dove fu firmata la Dichiarazione d'Indipendenza cambiamo decisamente genere e decidiamo di risalire, per una volta, addirittura all'epoca giurassica...anzi, cretacica.
Per farlo prendiamo un colorato carrozzone a due piani che ci porterà in collina, a pochi chilometri dalla città. Lì c'è una delle attrazioni di cui a Sucre vanno orgogliosi, il “Parque Cretacico”, e soprattutto c'è un candido faraglione con una quantità considerevole di orme di sauri preistorici conservate perfettamente grazie al tipo di terreno (non per caso, infatti,nei suoi pressi c'è la fabbrica di cemento più grande della Bolivia).
A tratti la strada non è asfaltata. C'è pure il vento e si alza un polverone infernale che riusciamo a evitare solo perché avevamo scelto di sederci al piano superiore. Il variopinto carrozzone è costretto a finire la sua corsa quando un gruppo di manifestanti sbarra la strada.
La
visita del Parque è di per sé molto interessante per la grande
quantità e qualità di informazioni contenute nelle sue sale.
Le
orme fossilizzate dei sauri preistorici sono visibili solo da
lontano. Si inerpicano su per la parete chiara della collina di
fronte come tralci di edera. Le impronte, più di cinquemia, appartengono a
centocinquanta specie diverse di animali preistorici.
Le hanno
scoperte nel 1994 gli operai della vicina fabbrica di cemento e si
tratta probabilmente del più grande giacimento paleontologico del
mondo.
Il
resto del percorso si svolge nel “Parque” vero e proprio, un
giardino nel quale incombono sul visitatore giganteschi sauri a
grandezza naturale.
Dai temibili animali - per fortuna solo
riproduzioni innocue – provengono muggiti e barriti decisamente
inquietanti che suscitano una certa impressione e danno un'idea
precisa di cosa doveva essere la Terra cento milioni di anni fa.
Il
pullman di latta colorata intanto dev'essere riuscito a farsi largo
nella manifestazione, perché lo vediamo parcheggiato nel piazzale.
Ci aspetta paziente, per riportarci sani e salvi nella Sucre
dell'anno 2013.