giovedì 8 agosto 2013

Salar de Uyuni: Il Lago Che Non C'è

Finalmente, la luce accecante della mattina in alta quota ci riscalda perlomeno il cuore. Carichi di aspettative e di entusiasmo diamo un'occhiata a Uyuni, approfittandone per fare colazione in un piccolo caffè. La cittadina è più calda e accogliente ora, rispetto al gelido approccio notturno. In un negozietto ci procuriamo acqua, biscotti e due paia di guanti di lana d'alpaca. Ci serviranno per il tour di tre giorni che sta per cominciare. La spedizione è già quasi pronta davanti all'agenzia di viaggi che abbiamo scelto. Le Toyota Land Cruiser 4x4 scalpitano come cavallini in attesa del "via". Gli autisti, che saranno anche le nostre guide, in piedi sul tetto dei fuoristrada caricano gli ultimi bagagli e le taniche di benzina. Nel deserto non ci sono distributori. E' una considerazione scontata e banale ma ci dà comunque un brivido di emozione il pensarlo. Si formano i gruppi e ci presentiamo reciprocamente: condivideremo questa avventura con Jaime, peruviano, due ragazzi francesi, Marie e Benoit, fratello e sorella, e Flavia, una giovane e simpatica brasiliana.


L'autista e nostra guida, Valter, finisce di stoccare acqua e scatole varie nel portabagli. Ora l'aspetto del massiccio veicolo è davvero degno di una spedizione seria e possiamo partire! Pochissima strada e ci attende un piccolo tuffo nella Storia sudamericana: "il cimitero" dei treni, che fino agli anni '40 servivano a trasportare sale e minerali verso i porti del Pacifico.



Tante foto suggestive circolano in internet, scattate in questo luogo. A noi delude un po' per lo stato di totale abbandono in cui versano i vecchi convogli, arrugginiti, corrosi dal sale, ma sopratutto sfregiati da scritte e graffiti. 




Il posto sarebbe davvero surreale ed emozionante, se fosse almeno libero dalle orde di turisti che si arrampicano come scimmie su vagoni e locomotive, alla ricerca dell'inquadratura originale o per farsi immortalare penzoloni da un predellino arrugginito.

Appoggiamo la macchina fotografica su una coppia di lucidi binari: sembrano incontrarsi all'orizzonte. E' scontato, ma comunque irresistibile uno scatto.








Ripartiamo, e dopo breve tempo giungiamo a Colchani, piccolissimo agglomerato di casupole ai margini del Salar. Ancora oggi i suoi abitanti raccolgono e lavorano il sale. Sono riuniti in cooperative e hanno l'esclusiva per questa faticosa attività. 

























Lasciato alle spalle l'ultimo avamposto sul Salar, eccoci finalmente a toccare con mano, anzi "con ruote", la crosta salata. L'impatto visivo è da subito spettacolare con il suo abbacinate contrasto bianco/blu.








La superficie della prima fascia di deserto, quella subito accanto a Colchani, è trapuntata di mucchietti conici di sale raccolto, sbriciolato e ora in attesa di essere portato via.





Superata l'area delle saline, ecco diventare protagonista la candida superficie, brillante e piatta ricamata da piccoli rilievi che disegnano pentagoni, esagoni, ottagoni irregolari, ciò che resta delle pozzanghere che si formano nel periodo delle piogge sulla superficie salata. Un pavimento regale che quasi ci spiace dover calpestare.

Il fuoristrada prosegue e parcheggia davante all' Hotel Playa Blanca fatto con mattonelle di sale.
Entriamo per uno spuntino con ottimo cibo preparato la sera prima dalla moglie di Valter e consumato su tavoli di sale, seduti su panche di sale.

 




 Fuori, alla luce brillante e al vento che qui non cessa mai, un'aiuola fiorita di bandiere.



Altri fuoristrada, parcheggiati davanti a questa specie di oasi, sbarcano turisti che pranzano, chiaccherando seduti in cerchio sul pavimento salato o, come noi, riparati dall'abbraccio dei mattoni salini. Usciamo ancora a fotografare: la distesa bianca e uniforme del territorio si presta a esperimenti di prospettive inconsuete e molti si cimentano addirittura con un grosso copertone di camion per ottenere inquadrature alla Escher.








Ripartiamo e dopo chilometri e chilometri di deserto bianco ecco apparire una figura annegata nell'orizzonte. Una Fata Morgana ? 





Più ci avviciniamo e più assomiglia ad una tartarugona. La maggioranza ci vede un grosso pesce che emerge dalla superficie del mare candido. Non è un allucinazione, si chiama Isla Incahuasi o Isla del Pescado appunto, nel bel mezzo del nulla. E' ricoperta da giganteschi cactus centenari che, sferzati dal vento e temprati dal freddo, crescono solo di un centimetro all'anno. Ricordiamo immediatamente la pagina nella quale Carla Perrotti -La Signora Dei Deserti milanese che ha attraversato in solitario il Salar de Uyuni- descrive l'emozione di vedersi apparire davanti, all'improvviso, quella che lei chiama affettuosamente "l'Isola che non c'è". Dopo una breve sosta ci rimettiamo in marcia. Purtroppo è tempo di lasciare la nivea distesa, perchè il tour ora prevede di avvicinarsi ai paesaggi delle Lagune e della Reserva Natural Eduardo Avaroa. Le solide ruote del nostro fido Toyota si dirigono perciò su sentieri di terra verso il rifugio andino di San Juan -ovviamente senza riscaldamento- dove alloggeremo per la notte. 







Ci arriviamo che è quasi buio. Scarichiamo bagagli e provviste d'acqua (fuori la temperatura andrà di parecchio sotto lo zero) e distendiamo i sacchi termici sui letti delle camere. Un buon mate di coca, tisana o tè caldo come aperitivo, cena e poi a dormire. Domani la sveglia è puntata sulle sette.