martedì 13 agosto 2013

Da Cafayate a Tucumàn: Quilmes non è solo una birra

Ci rimettiamo in viaggio lungo la Ruta 40, lasciando alle spalle  vini e Bodegas. Dovremo percorrere un bel po' di chilometri, 193 a detta del grande cartello arancione a lato della strada, per arrivare alla nostra meta finale di oggi, la città di San Miguel de Tucumàn.
E solo una manciata di chilometri – invece - per arrivare al sito archeologico dei Quilmes.



Il luogo non è proprio sulla strada principale, per arrivarci bisogna deviare, imboccando un vialone sterrato che dopo 5 chilometri si apre in un parcheggio. Ci sono solo due o tre auto e un chiosco modesto, con prodotti locali: cibi e artigianato.






Vento, sole e cielo blu la fanno da padrone, assieme alle pietre di ogni tonalità di grigio e ai verdi cactus possenti. Per accedere al sito occorre pagare un biglietto, ma si tratta  di pochi spiccioli, un contributo simbolico.





Il cartello di benvenuto ricorda che siamo nella città sacra dei Quilmes e, citando minuziosamente un decreto del 2007 che riconosce il loro diritto ancestrale su queste terre fa intuire che dietro a queste pietre ci dev'essere una lunga e dolorosa storia fatta di prevaricazioni, occupazioni, espropriazioni e rivendicazioni. 


Ce la racconterà di lì a qualche istante  un uomo di carnagione scura segnata da profonde rughe d'espressione, un cappello di feltro grigio a tesa larga, la guida del sito. Si avvicina al piccolo gruppo di visitatori appena formato e a cui ci siamo aggregati.  Con lui,possiamo entrare e iniziare la visita.




Il nostro accompagnatore si presenta. Discende da quei pochissimi Quilmes riusciti a sfuggire all'annientamento,il cui atto finale fu la deportazione in una “Reducciòn” vicino a Buenos Aires.
Quella zona oggi si chiama ancora così, Quilmes. Proprio dove attualmente si produce l'omonima birra.  “Si dovrebbe  pronunciare Kelmes, non Kilmes”, puntualizza lui con una punta di  amarezza.  Amarezza, perchè la lingua dei Quilmes, il Kakàn, si è perduto per sempre. Gli Inca, occupati questi territori vi imposero l'idioma Quechua. Del Kakàn, ci spiega il nostro uomo, non è ormai rimasto che un pugno esiguo di vocaboli, insufficienti a ricostruirne la struttura. D'ora in avanti, ci diciamo a bassa voce, quando in Italia andremo a cena nel nostro ristorante argentino preferito chiederemo sempre una “KELMES”. Così gli antichi, sfortunati abitanti di questa vallata in qualche modo sopravviveranno ancora, almeno attraverso una parola pronunciata in Kakàn. 


Ci aggiriamo fra resti di edifici di cui rimangono solo tracce dei muri perimetrali, passiamo accanto a pietre piatte e con piccole conche usate come mortai per pestare i cereali. 










I cactus poi, sono ovunque e dominano il paesaggio rendendo  spettacolare ogni veduta: erano di straordinaria importanza per i Quilmes, che si nutrivano dei loro frutti e utilizzavano il loro legno per fabbricare oggetti di uso quotidiano e per riscaldarsi.




Ci sono anche dei mucchietti di pietre, alcuni alti quasi un metro. Sono “Offerte alla Pachamama”, la Terra Madre che, come gli Inca, anche i Quilmes amavano e rispettavano. Molto più di noi, attuali suoi figli. Con un po' di tristezza raccogliamo due sassi di forma regolare e li depositiamo sulla piramide già formata.  

Il nostro accompagnatore continua il suo racconto. Ha nel tono l'orgoglio di dar voce alla memoria di un popolo che, prima gli Inca, poi i conquistatori spagnoli e infine i moderni “conquistadores” della speculazione edilizia e del turismo sconsiderato hanno cancellato per sempre. C'è molto da dire sulla loro vicenda, che è sconosciuta a gran parte di noi europei. Per questo pensiamo sia doveroso, non ce ne vogliate per questo, raccontarla qui. 
I Quilmes risiedevano in queste vallate fin dal primo secolo dopo Cristo ed avevano sfruttato molto bene il territorio, creando per difesa una cittadella e due fortezze (gli ultimi resti si possono ancora vedere). La popolazione viveva in armonia con le risorse naturali e prosperava. Poi, nel 1471 gli Inca occupano il territorio e iniziano il primo assoggettamento di questa etnia, snaturandone tradizioni e  lingua. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dopo aver fiaccato e soffocato nel sangue la ribellione indigena di Salta,il famigerato governatore spagnolo di Tucumàn, Alonso de Mercado y Villacorta, isola prima i Quilmes dandone poi un migliaio come schiavi alle sue truppe. Quando nel  1665 i Quilmes si ribellano di nuovo, ne fa deportare altri, distribuendoli in  famigerate istituzioni coloniali, le “encomiendas”, praticamente trattati come schiavi.  L'anno dopo, il resto dei Quilmes viene obbligato a percorrere 1200 chilometri a piedi, deportati nei pressi di Buenos Aires in una “Reduccion” (la “Reduccciòn de la Exaltaciòn de la Cruz de los Quilmes”) con la scusa di catechizzarli ed impiegarli per la costruzione della città. Durante il faticoso tragitto numerosi muoiono. Giunti a destinazione, pare che i Quilmes abbiano volutamente smesso di riprodursi. Molti poi, sono falcidiati da un'epidemia di vaiolo e dal clima umido di quell'area, detta “Nueva Quilmes”. Solo qualcuno era riuscito a sfuggire a questo triste destino di deportazioni nascondendosi nella parte più impervia delle valli. Nel 1716 la Corona spagnola riconosce ai pochi sopravvissuti il possesso  di quel territorio, diritto sancito da una “Cedula Real” rilasciata al loro capo (il cacique di Quilmes Don Diego Utibaitina). Ma nell'età della Repubblica non se ne tiene conto e il terreno viene espropriato pagandolo una miseria. Il resto è storia di incuria ed abbandono di questo sito fino a quando nel 1978, in occasione dei Mondiali di calcio piace l'idea di recuperare l'area per farla diventare un punto turistico significativo nella zona compresa tra Cafayate e San Miguel de Tucumàn. L'intento è buono ma la realizzazione, a detta di autorevoli archeologi, non lo sarà altrettanto. Del recupero sono incaricati personaggi che  applicano criteri più turistici che antropologicamente ed archeologicamente corretti, ad esempio non catalogano molti dei reperti trovati, e c'è di peggio (chi è interessato all'argomento può approfondire qui http://argentina.indymedia.org/uploads/2008/01/kilmes.pdf).
Su questa sfortunata area si abbatte quindi il colpo di scure finale: la sua concessione per dieci anni ad un impresario che, con l'appoggio di capitali privati raccolti sotto la sigla (davvero ironica) di “Pachamama srl” si incarica di costruire un hotel con ristorante e piscina, più un grande punto vendita di artigianato. Il tutto si realizza indovinate dove? Sopra i resti dell'antica necropoli. Il 2007 è un anno di dura lotta dei discendenti delle comunità Quilmes per affermare la validità della Cedula Real del 1716, riavere la gestione dell'area da essi considerata sacra e sede delle radici della memoria collettiva Quilmes, e che essi fra l'altro rifiutano di chiamare “rovine”. A novembre si costituiscono in Assemblea Permanente, usano le maniere forti bloccando l'accesso al sito, ed emettono un comunicato stampa e un reclamo ufficiale. Richiedono l'immediata esecuzione del Decreto di sfratto dell'impresario e delle sue attività turistiche, emesso ormai da mesi, e la restituzione ai Quilmes dell'area da essi considerata “la città sacra”.
(http://www.biodiversidadla.org/layout/set/print/content/view/full/37614)



Finalmente il 9 gennaio del 2008 ciò che resta della “città sacra” viene riconsegnato ai discendenti Quilmes, che  celebrano l'evento  con una cerimonia di omaggio alla Pachamama. Il tormento è quasi, ma non completamente finito, per i Quilmes;  colpi di coda dell'impresario, che fa appello qualche mese dopo contro lo sfratto, movimentano ancora le acque di questa emblematica vicenda dove ancora una volta si fronteggiano diritti ancestrali e culture autoctone contro moderna sete di turismo consumistico. Per fortuna, come nelle fiabe, arriva il lieto fine: nei diversi gradi di appello i giudici hanno dato ragione ai discendenti dei Quilmes e così oggi possiamo essere qui, a visitare un luogo carico di spiritualità ed energia senza essere fagocitati dal tipico scenario mercificato di tanti siti archeologici. E se nel DNA dell'uomo che ci sta davanti c'è davvero traccia di quella gente, diventa di inestimabile valore ascoltarlo così nel silenzio di grandi spazi assolati e grigioblù rotto solo dal vento che passa fra i cactus e dal suono forte e pieno di dignità della sua voce che racconta.