Fa ancora freddo alle dieci di mattina, quando a bordo di un bus vecchiotto abbandoniamo Sucre. I sedili sono un po' spelacchiati e la carrozzeria denuncia l'età, meno verde del colore della sua vernice.
In Bolivia se la sono studiata bene però: nel Manifesto dei “ compiti del passeggero” il punto numero due recita “ Verificar que el bus este en condiciones de realizar el servicio” ovvero, chi sale a bordo di un veicolo deve averne prima constatato l'efficienza e “ Denuncer oportunamente qualquier irregularidad”, avvisare di qualsiasi irregolarità. Bella storia...noi non siamo meccanici e nemmeno carrozzieri.
Perciò saliamo a bordo insieme agli altri e che Dio ce la mandi buona.
Dai finestrini del pullman scorre un paesaggio monotono fatto di rilievi e prati in abito invernale sotto a cieli spettacolari, trapuntati di nuvole. Scivolano sulla superficie del finestrino piccoli agglomerati di case. Ogni gruppetto di abitazioni, probabilmente microvillaggi, ha almeno una bandiera verde rossa e gialla ben spiegata al vento. Oggi è la Festa dell'Indipendenza della Bolivia, e qui in Sudamerica delle feste nazionali nessuno si dimentica.
Ogni tanto qualche passeggero scende dal veicolo, col suo coloratissimo fagotto dietro la schiena contenente merci,a volte invece piccoli cuccioli d'uomo placidamente addormentati.
Noi non scendiamo ancora: siamo diretti a Potosì. Ossia, ad uno dei crocevia più importanti dell'interazione tragica fra Nuovo e Vecchio mondo; Potosì, luogo-simbolo della crudeltà a cui l'essere umano può arrivare per avidità, città che ha ospitato tra il Seicento e il Settecento ricchezze materiali e dolore umano in quantità impressionanti, e di cui noi europei moderni sappiamo così poco.
Arriviamo a Potosì a metà pomeriggio, dopo averne costeggiato l'aeroporto.
L'auto si ferma, siamo arrivati a destinazione. Salutiamo e ci avviamo al portoncino di ingresso dell'hotel, ritagliato in un muro azzurro scuro. All'anziano prete juventino ormai non pensiamo più. La camera dell'albergo è pulita ma scarna come una cella. Qui tutto pare avere un'aria modesta, povera, ben diversa da Sucre o dal Cusco. Cerchiamo di immaginarci invece come poteva essere quattrocento anni fa Potosì, la città a cui Carlo V aveva appena attribuito il titolo di “Villa Imperial” ed uno scudo con l'iscrizione “Sono il ricco Potosì, sono il tesoro del mondo, sono il re dei monti e sono l'invidia dei re”. Oggi pomeriggio vogliamo ascoltare cosa hanno da raccontarci le viuzze dell'antica città che fu tanto ricca da far diffondere in Spagna il detto “Vale un Potosì”, ancora in uso oggi, per indicare qualcosa di valore immenso.
E per sentire la flebile voce delle pietre usciamo e ci immergiamo nel centro storico. E' piccolo, e sullo sfondo incombe lui. Il Cerro Rico, la “collina ricca”, farcita all'epoca della conquista spagnola di una quantità impressionante di metalli: stagno, piombo,ferro, rame, ma soprattutto argento.
L'aria è fresca e rarefatta, l'insegna di un pub ci ricorda che siamo a 4060 metri sul livello del mare, cioè in una fra le città più alte del mondo.
Sbuchiamo in una piazza, tutta drappeggiata da bandiere coccarde e manifesti patriottici: domani il Capo dello Stato, Evo Morales, verrà ad assistere alla parata militare e la città è agghindata al meglio per riceverlo. Il monumento centrale è affiancato da altri più piccoli e davanti a tutti, corone e quadretti fatti di fiori. Sono le sei e mezza di sera e la luce naturale sta diminuendo velocemente, sostituita da graziosi lampioncini ottocenteschi.
Un palazzo sfodera una fila di finestre ad arco illuminate con i colori della bandiera e un campanile quadrangolare gli fa eco, contro l'arancio e il verde del cielo al tramonto. E lì, complice quell'atmosfera suggestiva e surreale, il Destino ricomincia a tessere la tela.
Varchiamo la soglia in punta di piedi e rimaniamo al fondo ad ascoltare. La navata centrale è ampia, lunga, l'altare è distante da noi, tuttavia la voce del celebrante arriva abbastanza chiara e ha qualcosa di strano, meglio, di familiare. Percepiamo alcune parole pronunciate con accento...con accento...Ma certo! Accento italiano. In un attimo ritorna alla mente il racconto del tassista. Vuoi vedere che si tratta del frate juventino? Facciamo subito partecipi di questa storia i nostri nuovi amici e appena finita la messa cerchiamo la sacrestia. Ci troviamo così faccia a faccia con un più sorpreso se possibile di noi Frate Eugenio Natalini, per i suoi devoti parrocchiani “Frey Natacho”. Presentazioni, spiegazioni, saluti, Frey Natacho è felicissimo di incontrare in modo inaspettato quattro suoi connazionali, tra cui uno juventino doc e due praticamente compaesani, perché lui è di Viareggio, mica di Torino come ci aveva detto il tassista. L'anziano francescano, energico e spigliato come solo i toscani sanno essere, racconta la sua storia, e di come coordini da tanti anni le cosiddette “Scuole di Cristo”, fondate da
Giuseppe Zampa, frate marchigiano.
In queste scuole si offre gratuitamente istruzione e formazione
ai campesinos. Ormai molti maestri sono i figli stessi di campesinos e minatori. Promettiamo di diffondere notizia di quest'opera in Italia, al nostro ritorno, e allora ci porge un dattiloscritto con qualche precisazione in più e gli estremi bancari per chi volesse sostenere la causa.
Poi ci parla dell' antico e prezioso Convento di San Francesco e ce ne fa scoprire angolini suggestivi.
La Chiesa è abbellita con statue dai volti delicati, espressioni serene a cui ci hanno abituato le chiese italiane e che ci piace rivedere nella Vergine e nei Santi. Fin ora, nelle chiese visitate fra Perù e Bolivia, abbiamo visto statue con espressioni doloranti, visi deformati dalla sofferenza,i corpi lacerati da ferite realistiche grondanti sangue. Non ci abitueremo mai a questo cruento realismo alla Mel Gibson, anche se tipico di tanta pittura spagnola antica.
Con la guida di Frate Eugenio troviamo infine l'uscita, attraverso l'antico chiostro, immerso nella penombra. Torneremo domattina qui, prima della Messa delle 9,perchè abbiamo una maglietta nuova della Juventus, per caso messa in valigia, che il Frey potrà mettere in palio per sovvenzionare le sue scuole. E se avremo un po' di tempo, Frate Eugenio ci porterà sul campanile, da dove potremo godere un bel panorama di Potosì. Ci lasciamo commossi e felici per aver vissuto questo incontro prezioso assolutamente non previsto da nessuno di noi. Però, a pensarci meglio, un pianificatore c'è. Il Destino è stato il grande orchestratore di tutto ciò. Forse, proprio perché desiderava dessimo visibilità all'opera di Frey Natacho. E noi volentieri raccontando questa storia lo abbiamo accontentato.