Montiamo in groppa al nostro destriero meccanico e partiamo.
Certo, due cavalli sarebbero stati più intonati, in un territorio dove questo animale la fa ancora da padrone ed è perfettamente normale avere cavalieri come compagni di strada.
I grandi cartelli stradali verdi ci aiutano a imboccare la strada per la città di Cafayate, nostra destinazione.
Anche i tabelloni marron della “Ruta del Vino” ( con tanto di grappoli stilizzati) sono piuttosto allettanti e ci ricordano che stasera arriveremo in una delle maggiori zone di produzione vinicola dell'Argentina.
Raggiungiamo un camion. Sul retro del cassone, poeticamente scrostato come solo i camion sudamericani sanno essere, hanno dipinto col rosso una verità universale: “Le tasse ben amministrate ritornano al popolo sotto forma di opere pubbliche”. Universale, e universalmente disattesa, in Argentina come in Italia e come un po' dappertutto. In fondo intercultura si fa pure fotografando un cassone allegro e colorato che ci fa sentire uguali a ogni cittadino del mondo.
Il sole disegna ombre e profili sui versanti che illumina.
Poi, la vegetazione quasi scompare per lasciar posto alle bizzarrie cromatiche e strutturali di un paesaggio che non ha nulla da invidiare ai più famosi canyon statunitensi.In quest'area, come da noi nelle Dolomiti, un tempo c'era il mare. Così, questa strabiliante spaccatura naturale si chiama “Quebrada del Rio de las Conchas”, prendendo il nome dal fiume che vi scorre, che contiene in sé l'idea che vi siano delle “conchas”, conchiglie, appunto, fossili.
Le formazioni rocciose modellate in un tempo infinitamente lungo da pioggia, vento e acqua hanno strutture di impressionante bellezza che ricordano torri, anfiteatri, finestre, gole del diavolo e...rospi.
Così ecco personificarsi “Las Ventanas”, “Los Castillos”, “El Anfiteatro” (dove l'acustica si presta ai concerti), profonde insenature quasi diaboliche,”La Garganta del Diablo” e... “El Sapo”, il rospo, che nelle favole con torri e castelli non manca mai.
Un cartello artigianale, vicino alla Garganta del Diablo, avverte che siamo in un luogo sacro per l'antica popolazione precolombiana Suri Diaguita, che ancora oggi conta adepti. Vi si svolgono i riti in onore di Pachamama, la Madre Terra. E la Pachamama stessa, nel cartello, chiede ai visitatori di rispettarla evitando di lasciare in giro spazzatura o scritte sulle pareti rocciose.
Non sempre la Pachamama è stata ascoltata, però.
Non è ancora tempo di dedicarsi al vino, me ci ripromettiamo di farlo l'indomani: alcuni imponenti ingressi a "Estancias" e "Bodegas" sono davvero invitanti.
Incontriamo, nella hall dell'albergo, una simpatica coppia di uruguayani. Veramente ci “intercettano” loro, sentendoci parlare fra di noi in italiano. Sono uruguayani sì, ma anche italiani, ci spiega lui con un largo sorriso, esprimendosi in un italiano perfetto e dallo spiccato accento triestino. Il divertente è che anche quando parla in spagnolo si sente l'accento triestino. Solo che lui, da Trieste, è partito che aveva pochi anni. Anche lei, che ha ascendenze italiane per parte di madre, parla e comprende perfettamente l'italiano. Facciamo immediatamente amicizia e il resto della serata passa a chiacchierare di storie di emigrazione, dell'Italia e del Sudamerica.
Il tutto, davanti a una buona bottiglia di bianco Torrontes per innaffiare un sopraffino “asado” di carne alla griglia, mentre le nostre orecchie sono deliziate dalle musiche e dai canti popolari di un gruppo di artisti di strada che si esibiscono su un palco improvvisato, all'interno del locale.
Alcuni danzatori sono piccoli, appartengono ad una scuola di danze popolari, ci spiegano. Colpisce la bravura e la serietà con la quale ballano.
Il vino aiuta a sciogliere le timidezze, e dopo un po' partecipiamo tutti ai canti. Non è possibile resistere al coinvolgimento, e rendiamo omaggio così, cantando, a questa terra generosa e ospitale.